ULTIMA LEZIONE

(1)  FUORI, DENTRO L’UNIVERSITÀ  / Massimo Pica Ciamarra  15.12.07

Per evitare un'”ultima lezione” avevo iniziato l’ultimo corso condensandone l’introduzione (2) in un pieghevole a stampa e 48 immagini. Il Preside però ci richiama ad un “rito di passaggio”: gli sono grato, mi ha spinto a riflettere sul senso del percorso in una Facoltà che ho cominciato a frequentare nel 1954.

(3) A quel tempo la contrapposizione fra razionalismo ed istanza organica era vivace, da un paio di decenni Broadacre City era l’alternativa americana alla Ville Radieuse, Alvar Aalto aveva ultimato il Municipio di Saynatsalo, Le Corbusier aveva realizzato l’Unitè d’Habitation a Marsiglia, (4) ma non ancora sorpreso con la Cappella di Ronchamp o il Padiglione della Philips. In Italia si lavorava al primo Piano INA-Casa. Erano anni carichi di fiducia, di forte speranza. Prendeva concreto avvio il sogno europeo. (5) Adriano Olivetti aveva fondato “Comunità”; Bruno Zevi l’INARCH, non un’associazione di architetti, ma l’unione di forze diverse tese alla qualità delle trasformazioni dell’ambiente.

(6) Negli  anni ’50 si dissolvono i CIAM e ha origine il Team X, gruppo innovatore ed informale che dal ’58 trova nel Carrè Bleu (7) – prima a Helsinki, poi a Parigi – un singolare strumento di comunicazione. Per noi giovanissimi una porta che apriva “in search of a utopia of the present”. (8) Quindi non fuga dal presente, ma utopia come modo di proiettare il futuro: “The Aim of Team X: non teorizzare, ma costruire perché solo la “con-struzione” può realizzare un’utopia del presente”.

Dal di fuori di questa Facoltà (vivificata dalla critica sferzante di Roberto Pane, iniezioni poetiche di Giulio De Luca, irriverenti ricerche di Ezio De Felice) sulla nostra formazione influivano umanità e rigore di Luigi Cosenza e, più distanti, Alvar Aalto e Reima Pietila; l’espressionismo organico (Scharoun); le tesi del Team X (Bakema, Candilis, Van Eych; soprattutto Alison e Peter Smithson, Giancarlo De Carlo, Shadrach Woods,  Oscar Hansen, …). 

Caso o coincidenze fanno si che oggi io mi trovi nelle cabine di regia di due organismi culturali nati proprio in quegli anni, per noi studenti di allora due attrattori stimolanti, sostanziali occasioni di incontri: la generazione che ci ha preceduto non tollerava cedimenti. (9) Come Istituto Nazionale di Architettura a Roma – maggio ’95 / Chiostro di Santa Maria della Pace – con Fuksas e Sartogo lanciammo l’“Appello per l’Architettura”: poco dopo Zevi lascia la vicepresidenza dell’INARCH e propone che assuma io questo compito. Da un paio d’anni a Parigi Philippe Fouquey e gli amici del Carrè Bleu – che dopo i colloqui “L’architecte et le pouvoir” mi avevano affidato la guida dell’O.I.A. – l’Observatoire International de l’Architecture con il quale proponemmo il progetto di “Directive européenne sur l’architecture et le cadre de vie”) – (10) mi hanno chiesto di dirigere il loro “feuille internationale d’architecture“, dall’anno scorso promotore di un’iniziativa annuale per neolaureati europei e dei paesi del Mediterraneo che si sviluppa con il patrocinio dell’UNESCO.

Sono queste coincidenze che mi spingono a connettere a quella temperie culturale – alle radici degli anni ’50 – cinque parole chiave che qui oggi uso per sintetizzare l’intreccio fra ricerca universitaria e progettuale: uno sguardo al passato che è anche visione prospettica, teso a sollecitare confronti. Devo infatti a quei fermenti l’aver sviluppato un interesse verso l’architettura soprattutto per i significati che esprime. Senso prima che forma, o almeno insieme, com’è nella radice etimologica comune alle parole  che in greco esprimono il “vedere” e l'”idea”. (11)  L’architettura è impegno sociale, visione politica, etica. Persico la definì “sostanza di cose sperate”. É uno strumento per migliorare la condizione umana prendendo in considerazione le esigenze sociali degli individui, superando ogni concezione meccanicista della società. Il senso di questa utopia – o meglio di questo ideale, di questa necessità di dar senso all’azione – è insito nell’esperienza degli spazi immaginati e costruiti, (12) ma non nella loro realtà apparente. Il senso di questa utopia è insito nell’eterotopia latente espressa da progetti che non cercano surrogati di desideri o celebrazioni del tempo infinito, ma che proiettano la realtà in un sogno. Idea che diventa forma, forma che vuole riflettere le differenti aspirazioni di chi vive o vivrà in quegli spazi.

(13) Il primo edificio che ho costruito – 1961-64 / officine Angus a Casavatore – risente delle tesi del n°1/1961 del Carrè Bleu: “La forme architecturale” di Aulis Blomstedt, ma soprattutto “La forme ouverte en architecture ou I’art du grand nombre” di Oscar Hansen. Ricerca di forme sempre finite e simultaneamente sempre disponibili allo sviluppo; crescita discontinua cioè diversa da quella degli organismi viventi; rivoluzionaria estensione dell’idea di “flessibilità” che non rifiuta, anzi si fonda su decise caratterizzazioni formali; e soprattutto ottica di sistema, non di edificio. (14) Con linguaggio del tutto diverso, principio analogo impronta anche la Casa a Posillipo (1964-69, da allora accoglie il nostro studio): tensioni aaltiane ed occhio attento ai “Criteria for Mass Housing” degli Smithson.

(15) La “forma aperta” è la prima parola chiave. La seconda è “Web” di Shadrach Woods (Le Carré Bleu n°3/1962). Con “stem” e “cluster” forma la trilogia dei principi del Team X da cui muovevano i nostri primi concorsi: (16) “Arianna senza filo” (1963) per la Facoltà di Medicina a Cappella dei Cangiani; “Un seme per la metropoli” (1964) che con Riccardo Dalisi ancora oggi considero quasi un manifesto; (17) poi – anche con Luciana de Rosa e Uberto Siola – “Kronos” (1968) per la nuova Università di Messina, nella scia delle proposte di Candilis, Josic, Woods per la Freie Universität di Berlino o per quella di Bochum, o di Giancarlo De Carlo per l’Università di Dublino. Poco dopo realizzammo la “deroga ludica alla recita istituzionale” (18) – Zevi definì così l’unità polifunzionale di Arcavacata dell’Università della Calabria (1971-73) – che André Schimmerling e Alexander Tzonis in “Lhéritage des CIAM 1958-1988″ segnalano fra i contributi all’evolversi delle tesi del Team X.

Sperimentavamo queste tesi, eravamo impegnati in ricerche su questi temi, ne eravamo portatori nella didattica, anche per gli spazi di libertà che Canino e poi Capobianco, consentivano a noi “assistenti volontari” prima della “libera docenza”. (19) La piccola pubblicazione che seguì l’incarico del primo corso di Progettazione Architettonica 1971/72 – “Napoli – Sistemi pedonali continui intorno alle autostrade urbane”– (Benedetto Gravagnuolo molto prima di essere Preside ne fu testimone, di lì la sua tesi di laurea) documenta una sostanziale coincidenza fra ricerca teorica, ricerca progettuale, attività professionale, didattica. I ragionamenti di quegli anni animano il Piano Quadro delle Attrezzature di Napoli delineato con Gianni Cerami, Sandro Dal Piaz  e altri amici: reti metropolitane in sottosuolo, intorni pedonali, prossimità funzionali. Molto devo ai contributi critici dei miei assistenti Vito Cappiello, Antimo Rocereto, Maria Vittoria Serpieri; poi Isabella Guarini e Francesco Venezia; quindi Angelo Verderosa, Salvatore Cimmino, Mauro Chiesi, Michelangelo Russo, Aldo Di Chio … impossibile citarli tutti. Per 36 anni ogni corso, tranne i tre ultimi “laboratori”, ha sempre avuto carattere monografico. Ogni volta una questione scandagliata da esercizi progettuali che ogni studente sperimenta in luoghi diversi: (20)(21)(22) dai “condensatori sociali” allo “spazio come sistema di luoghi”; dai “percorsi pedonali nelle nuove tipologie urbane” a “topologia / morfologia”, a “logiche interne / logiche di immersione”, “armatura della forma / linguaggi espressivi”, “materiali della costruzione / materiali dell’architettura” e così via. La ricerca progettuale si riversava nella didattica; contemporaneamente sosteneva la nostra presenza nel dibattito teorico con interventi un po’ dovunque, sistematici sul Carré Bleu: (23) Activités simples et fonctions flexibles (1/1966); Recherche de structure urbaine (2/1966); (24) Proposition pour linsertion de lUniversité dans une trame urbaine (1/1976); Noeuds de mobilité et édifices-parcours (4/1976); (25) Pedestrian courses as integral parts of new urban typologies (2/1977); Historic centres and urban sprawls: a challenge for mass housing (4/1977); (26) La participation (3/1978); Continuité et contradictions dans larchitecture contemporaine (1/1980); “Napoli – Scossa in una città immobile” (13/1981); (27) Création architecturale et informatique? (3/1986); Architecture H.Q.E. méditerranéenne (1-2/2001).

                La crisi energetica del ’73 fu salutare. Per tre anni fummo coinvolti nel “Progetto finalizzato energetica – sottoprogetto energia solare” del Consiglio Nazionale delle Ricerche; ne uscimmo quando ci sembrò distorcente, teso a risultati puntuali al prezzo di danni globali. Grazie a Giancarlo De Carlo – sostanziale nel Team X e fra i collaboratori storici del Carré Bleu – (28) con Luciana de Rosa pubblicammo anche su “Spazio e Società” “Energia-Architettura: alla ricerca delle informazioni perdute“, corroborato da alcune esperienze: “cinque principi per sette progetti”. L’evolversi di quelle ricerche (materializzate tra l’altro nell’Istituto Motori del CNR (29)(30) negli uffici Teuco-Guzzini a Recanati (31)(32), nella Città della Scienza a Napoli, (33)(34) quest’anno nella Biblioteca Sangiorgio a Pistoia); la dialettica con Pierre Lefévre, Jeanne-Marie Alexandroff, Claus Steffan, Frédéric Nicolas e Richard Fielden, compagni di strada nel gruppo di ricerca Ecoville-Europe; la definizione del Codice EQUA (Elevata Qualità Ambientale) con ENEA e INARCH (35) conducono al terzo slogan: “la sostenibilità sostiene l’architettura”, nella scia del “Survival through design”  inascoltato richiamo di Neutra degli anni ’50.

                Negli anni ’90 (36)  in “Progettazione architettonica”, “Capziosi-Captanti”, “Qualità e concezione del progetto”, “La cultura del progetto: lezioni, nozioni, azioni”  ho raccolto molti appunti. La quarta parola chiave – “Interazioni” – è anche titolo del libro che li integra e riordina, con l’ambizioso  sottotitolo di “principi e metodi della progettazione architettonica”. L'”in-disciplina”, vagare in campi apparentemente anche lontani dall’architettura, affascina. (37) “In-disciplina” è quasi sinonimo di “interazioni”: esprime l’esigenza di superare la cultura della separazione, di affermare quella dell’integrazione, di praticare l’eteronomia dell’architettura, il privilegio del paesaggio e dei contesti. (38) Credendo in contestualità – non tanto fisiche, spaziali, materiche – quanto culturali in ogni accezione del termine; e nella progettazione come azione collettiva. Tutto questo è nel DNA dell’INARCH ed evoca una felice espressione di George Candilis: “una costruzione isolata, per quanto buona possa essere, non ha interesse se non comporta una possibilità di integrazione in un tessuto urbano, o se essa stessa non provoca la creazione di un nuovo tessuto”, (39) ed anche la mia definizione della progettazione architettonica come “sistema di errori sapienti. Saper sbagliare, o meglio saper corrodere ogni ottica specialistica”. Punto di fuga: l’integrazione; in termini concettuali,  di funzioni, di forma ed espressione non solo spaziale.

La quinta parola chiave (40) – apofenia – è una torsione attiva della prospettiva introdotta nel 2003 da William Gibson in “Pattern Recognition” (letteralmente “Il riconoscimento delle forme / dei motivi / delle trame / dei modelli” –  ma tradotto in italiano col titolo “L’accademia dei sogni”): cogliere o introdurre collegamenti e significati fra cose non correlate, stabilire connessioni laddove sembra  che non vi sia che caso e caos. (41) È un filo che lega “Architettura e dimensione urbana” – ragionamenti teorici, esperienze didattiche e ricerche progettuali degli anni ’70 – fino all’“Apologia del non costruito” di tre anni fa: la logica (iper)relazionale fa si che dove le relazioni prevalgano, gli oggetti singoli perdano la loro importanza fino ad annullarsi. È sottesa a “Città futura – Alternative per il prossimo millennio”, la Mostra che curammo per “Futuro Remoto”; alla nuova Piazza di Fuorigrotta (1987-90, (n°3/4-1992 “Immatériel sur la place / Architecture sur la place”); fino a “Fragments-Symbiose“, il numero-manifesto 0/2006 del Carré Bleu. (42) Di qui anche “L’architettura al di là della forma”, l’ultimo numero 2007 della rivista che richiama  l’aforisma dell’iceberg di Blomstedt, ed è anche in ideale raffronto con “La forme architecturale” del n°1/1961.

                      Sintetizzare in cinque parole il senso dell’azione, dentro come fuori di questa Facoltà, è spregiudicato. Le questioni che attraversano 36 corsi di Progettazione Architettonica sono tante; tante anche le esperienze di progetto. Non sfuggono errori e occasioni perdute. Le sintesi sono indispensabili, benché non vi sia etichetta in grado di racchiudere nessuno di noi, anche prima che si riduca ad un pugno di cenere. Poi definirle “parole chiave” è chiaramente strumentale. (43) L’elenco – forma aperta, web, sostenibilità, interazioni, apofenia – è disomogeneo. Ma i progetti vivono di positive confusioni iniziali, “brodi primordiali” che ambiscono visioni unitarie, creatività, regia, fondamentali in qualsiasi processo. Le ho definite “parole chiave”, ma in realtà sono le questioni di fondo che ci fanno guardare con un certo distacco il susseguirsi di ventate stilistiche e le ammiccanti suggestioni dello star system internazionale.

                             La storia dell’architettura è più storia delle forme o più avventura delle idee? È un interrogativo che impronta la conversazione di oggi. Se la funzione è un pretesto, se non è né funzione né forma, cos’è oggi “architettura”? (44) L’architettura e l’urbanistica sono visceralmente legate: “principale cliente dell’architettura, anche nella costruzione di una casa individuale, è la società nel suo insieme”. L’architettura non è questione di linguaggi, non è questione di edifici.

           (45) Ad una monografia sul nostro lavoro Mario Pisani ha unito un”antologia critica” e 3 video di Marina Vergiani che leggono tre ricorrenze: “Tecnologie dolci”, “Materiali immateriali”, “Luogo e frammento”. “Tamoè” è stato un diverso racconto. “I frattali e l’integrone” un altro ancora. Sin dagli anni ’60, le immagini di Mimmo Jodice hanno documentato con costanza le nostre architetture, altra interpretazione. Le nostre mostre monografiche sono state sempre strutturate in sezioni tematiche: (46) Vuoti e luoghi urbani, Architettura e dimensione urbana, Ambiguità della forma, Dialoghi di forme, Punti fissi ed attività flessibili, Maglie di attesa, Architettura/Energia; (47) Continuity in the landscape, Lattice structures and fragments of form, (48) Continuity of pedestrian connections, Intersection of different spaces. Qualche tema ricorre, ma come sempre le sintesi spaziano, cercano fili conduttori.

Difficile condizione quella locale. Qui si aggira ogni norma per coinvolgere lo star system internazionale e non si supportano nella formazione né si valorizzano le risorse locali. Per i più giovani, per lo sviluppo stesso di questa realtà, è un crimine più che un dramma. Comunque, tra ovvie contraddizioni e “ozio creativo” (come lo definisce Mimmo De Masi) fuori dall’Università agiamo come partnership pluridisciplinare aperta (oltre Luciana de Rosa e Antimo Rocereto qui insegnano Giampiero Martuscelli e Patrizia Bottaro; essenziali – ma non in Facoltà – Claudio De Martino, Paola Gargiulo, Pasquale Miele, Fabrizio Cembalo, Antonio Dori, così tutti, fra cui Almerico Realfonzo al quale la Facoltà deve molto, oltre a tanti più giovani collaboratori). Ci si fonda su tre assunti raggiunti anche attraverso la didattica: desiderio di futuro; interazione teoria/pratica; partnership prima che leadership.

Anche quest’anno una diecina di concorsi non solo in Italia. Alcuni cantieri  distanti, fra quelli vicini (49) la Facoltà di Medicina a Caserta; (50) il Parco dello Sport a Bagnoli, (51) il Museo del Corpo Umano. Quest’anno si è anche inaugurata (52)(53)(54) la Biblioteca Sangiorgio a Pistoia (giorni fa “la Repubblica” le ha dedicato molto spazio. Parlando di “città rinata grazie ai libri”, “città a misura di libro” – mi ha fatto quasi piacere l’assenza di immagini – e spiegando perché la “filosofia d’insieme che sostiene la nuova Biblioteca” incide su comportamenti e rapporti umani). Per la Biblioteca di Pistoia Anselm Kiefer ha realizzato “Die Grosse Fracht”. L’“Italia all’asta” di Luciano Fabro integrerà a breve il fronte mare della Città della Scienza alla quale fra un anno si accederà percorrendo “La via della conoscenza” di Dani Karavan. (55) Altre personalità hanno materialmente inciso sul nostro fare: Carlo Alfano risolse l’orizzontalità/verticalità di un delicato spazio interno; in progetti per Berlino, Atlanta o qui in Italia erano con noi Renato Barisani, Fred Forest o Umberto Mastroianni; mesi fa Peter Greeneway ci ha supportato nel progetto di concorso per gli Studios della Campania Film Commission.

Di una lezione, uno scritto, un libro, si è responsabili da soli. Le concrete trasformazioni dell’ambiente derivano invece da partnership complesse – non solo di tecnici, economisti, sociologi, filosofi, artisti ed esperti di ogni tipo – ma con costruttori, produttori, committenti. La dialettica con chi ha ruolo di committente, con chi ha ruolo politico, con chi utilizza l’architettura, è essenziale; sostanziale è quella con chi si occupa d’altro, straordinarie singole personalità o gente comune che aiutano a penetrare e comprendere come cambia quanto è alla base del fare. (56) Il progettista reale è quindi un essere diffuso: per cui simultanei all’interno “gioco di squadra” ed all’esterno continue “partite a scacchi” dove non bastano parole chiave o soluzioni tipo, ma occorrono sempre nuove strategie “alla ricerca dell’utopia del presente” o meglio alla ricerca di quella che prima definivo eterotopia, il suo simmetrico inverso: non ambienti privi di localizzazione effettiva, ma luoghi reali, aperti su altri luoghi, luoghi la cui funzione è far comunicare tra loro gli spazi e soprattutto le persone. (57) I luoghi privilegiati dell’utopia del presente non sono solo cinema, teatro o spazi senza funzioni conosciute. L’architettura ha il compito di coltivare questa dimensione, di contribuire a produrre eterotopie come luoghi aperti, di sogno e di contestazione,di discontinuità, di differenza assoluta. Chi si è formato negli anni ’50 oggi non può avere nostalgia del passato, ma ancora desiderio di futuro. Per Perec “lo spazio è un dubbio: devo continuamente individuarlo. Non è mai mio, mai mi viene dato, devo conquistarlo – nel (vano) tentativo – di trattenere qualcosa,di far sopravvivere qualche briciola precisa al vuoto che si scava; di lasciare da qualche parte un solco, una traccia, un marchio o qualche segno”.

 Nel mondo che cambia, per l’architettura – in quanto desiderio di trasformare l’ambiente di vita per migliorare la condizione umana – si impongono mutazioni di senso ed ambizioni diverse nelle varie regioni del mondo e nelle diverse culture. Qui, nelle aree europee e mediterranee, occorrono soprattutto spazi adatti al coesistere delle diversità e al mutare delle mentalità. Non è il solo motivo che impone di investire con forza nell’Università e nella ricerca: oggi anche in Italia vi è tensione perché questo assunto elementare si concretizzi davvero. Ho lasciato spazio ad energie più giovani un po’ prima di quando ne sarei stato costretto. (58) Utopia del presente: l’Università non è un correre fra crediti, burocrazia, adempimenti, è un luogo di libertà e di intelligenti aperture dove si deve dare spazio al confronto, non al conflitto; dove far convergere esperienze, dove formare menti spinte ad immaginare oltre. C’è urgenza di spazi di questo tipo – diffusi, simultanei -sia dentro che fuori l’Università.

Questo “dentro, fuori l’Università” pone sostanzialmente tre questioni:

                1.            Il termine stesso “architettura” oggi ha significati molto diversi dal passato. Ma non è opinione diffusa, sembra che non ce se si voglia accorgere. Mutazioni avvengono ovunque: anche i medici ritengono oggi anacronistico – per contenuti e significati – il loro “giuramento di Ippocrate”.

                2.            Forse nel secolo scorso costruire, trasformare, poteva essere il prodotto di leadership. Oggi è decisamente il prodotto di partnership, sempre più complesse, e non solo di compagini tecniche. Il progettista reale ormai è un essere diffuso.

                3.            Il benessere non si raggiunge attraverso pochi interventi di qualità, ma attraverso qualità diffusa. L’assenza di qualità, l’assenza di architettura produce danni economici e soprattutto danni sociali. Anche di questo si fa finta di non sapere.

Quali sono i principi basilari, quali le condizioni che non rendono improbabili architettura di qualità?

È vietato fumare. Ci si vuole proteggere dal fumo passivo ormai anche all’aperto, dall’inquinamento ambientale, da prevaricazioni sonore, dall’inquinamento luminoso. Ma come evitare barriere fisiche che consolidano ostacoli psicologici? Come difendersi dal respirare, dal vivere, dall’essere costretti ad agire in ambienti impropri? Su che basi, su quali principi fondare un patto sociale per la qualità diffusa ?

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